domenica 11 gennaio 2015

Non dimentichiamoli!


 
Quando parlo di cinema con qualcuno che conosco mi trovo quasi sempre a citare nomi e film che la persona in questione non conosce. E non si tratta certo di film d’autore di qualche pseudo intellettuale, ma di film divertenti o commoventi, geniali proprio per la loro semplicità.

Queste stesse persone sanno però tutto di Julia Roberts e Tom Hanks, conoscono tutta la filmografia di Christian Bale, non perdono un film di Jack Black o Ben Stiller. Ma se parli loro di un attore di qualche anno fa, buio totale. E non parlo solo di nomi che, pur avendo fatto la storia del cinema, sono indiscutibilmente collocati molti indietro negli anni, come James Stewart o Rock Hudson. Conto sulle dita di una mano i miei coetanei che conoscono Walter Matthau e Jack Lemmon. E perdonatemi, ma è una vergogna. Perché Matthau e Lemmon, con la loro squisita ironia, con i loro manierismi, con la loro perfetta chimica, in tutti i film che hanno realizzato ci hanno parlato di noi, dell’amicizia, della vita, e negli ultimi anni perfino della vecchiaia e della morte. Temi scomodi, ma affrontati col sorriso e con una visione della vita tipicamente americana da cui avremmo anche da imparare.

Matthau è morto nel 2000. Lemmon, l’altra metà della coppia, l’anno dopo. Non stiamo parlando di Joan Crawford che è morta nel 1977 o di Cary Grant che si ritirò dalle scene a metà anni ’60. Si tratta di due degli attori più divertenti della storia del cinema, eppure sembra che ai giovani d’oggi non interessi nulla di quello che non è loro contemporaneo.

Certo, Matthau e Lemmon sono morti, ma i loro film continuano e continueranno per sempre a vivere. Ignorare la loro esistenza, è come ignorare Michelangelo, Raffaello, Caravaggio. Anche loro sono morti, ma i loro dipinti restano come patrimonio dell’Umanità e nessuno si sognerebbe mai di darli meno importanza rispetto ai dipinti dei pittori contemporanei. Mentre per quel che riguarda il cinema, ciò che non è contemporaneo sembra non avere più alcun valore. E questa, come ho già detto, è una vergogna.

domenica 16 novembre 2014

Io no spik inglish... ma siamo in tanti



Quest’estate lo sciopero dei doppiatori ha riacutizzato l’eterna polemica tra sostenitori del doppiaggio e puristi che vorrebbero film e telefilm trasmessi in lingua originale.

Sperare come molti fanno in un abbandono del doppiaggio è completamente idiota. È un comportamento radical chic, non da intellettuale bensì da intellettualoide. Questa gente sostiene che, doppiando, intere frasi e addirittura intere sceneggiature vengono travisate, le sfumature si perdono, la capacità degli attori non viene percepita completamente.

Hanno ragione. Quasi nessuno sa che Morgan Freeman ha una voce profonda e sexy e che in originale Whoopi Goldberg non parla squittendo. Ed è verissimo che certe frasi, in particolar modo i giochi di parole, si perdono (gli indovinelli di Riddler nel telefilm di Batman degli anni ’60 con Adam West ne sono un ottimo esempio). Provate infine a pensare alla ricchezza di significati di una singola parola. Ne Il Re Leone, nella canzone Sarò re cantata dal cattivo Scar, alle iene che gli domandano E noi che faremo?, lui risponde Voi seguite il maestro, in originale Listen to teacher. La traduzione di teacher in maestro è filologicamente perfetta, eppure si perde una sorta di richiamo alla scuola presente nel testo originale, come se Scar stesse tenendo una lezione alle iene.

Però… Tutte queste sfumature le coglie solo chi conosce la lingua. E in Italia, checché ne dicano i sostenitori della lingua originale, molti in inglese non vanno oltre al The cat is on the table, e non parliamo di altre lingue. Ma ancora più importante, per recepire queste sfumature, la capacità recitativa degli attori (quando non si conosce la lingua, sembra che tutte le frasi vengano pronunciate con lo stesso tono) e i sottointesi di una particolare frase, bisogna conoscere la lingua che si sta ascoltando bene quasi quanto la propria lingua madre. E sono convinto che nemmeno l’1 per cento di questi puristi conoscano così bene l’inglese.
 
E allora, meglio perdere qualche sfumatura che perdere tutto, perché è questa la situazione in cui si trova in realtà chi non conosce la lingua.

domenica 9 novembre 2014

Fino all'ultimo momento



Un buon thriller dovrebbe tener attaccato lo spettatore alla sedia fin all’ultimo istante. Non è per forza necessario il colpo di scena finale, a volte spiazzante come ne La donna che visse due volte, altre alla base del senso del film (come Il sesto senso), altre ancora in parte intuibile ma sicuramente ansiogeno come High Crimes – Crimini di stato. Sono invece indispensabili svariati colpi di scena nel corso della storia. Una trama troppo lineare, senza sorprese e con uno svolgimento prevedibile, distoglie attenzione. È naturale che in un thriller si alternino momenti di tensione a momenti relativamente più tranquilli, per lasciar tirare un sospiro di sollievo allo spettatore e dare un equilibrio alla narrazione, ma è anche logico che più intense e numerose saranno le scene di tensione, più il film incarnerà a pieno titolo la definizione di thriller.

Uno tra i thriller più ansiogeni (e per un thriller, questo ovviamente è un complimento) è The Game – Nessuna regola. La storia ruota intorno al ricco uomo d’affari Nicholas Van Orton (Michael Douglas), ossessionato dal ricordo del padre, suicidatosi buttandosi dal tetto di casa quando lui era ancora piccolo. Per il suo compleanno il fratello Conrad (Sean Penn) gli regala l’iscrizione ad un esclusivo club di giochi di ruolo per movimentare la sua noiosa e monotona vita. Da quel momento l’esistenza del protagonista diventa un vero e proprio incubo. Un gigantesco complotto in cui sembra essere coinvolto chiunque, mette in pericolo il suo lavoro, le sue finanze e la sua stessa vita.

La sede del club di giochi di ruolo (che Van Orton capisce essere la copertura per un giro di ricatti e truffe) è abbandonata e la polizia non crede al suo racconto. Recandosi a casa di Christine (Deborah Kara Unger), una donna che ha conosciuto apparentemente per caso, capisce che la ragazza è una dipendente della società di giochi di ruolo che l’ha cacciato in quella situazione. Van Orton scopre che i suoi conti finanziari sono stati prosciugati e la donna droga il suo tè e lo trasporta privo di sensi in un cimitero in Messico.
 
Siamo solo a metà film e i colpi di scena non si contano già più. E proseguirà così fino alla fine. Come dovrebbe fare ogni thriller degno di questo nome.

mercoledì 5 novembre 2014

Un ballo, niente di più


Alcuni film diventano dei cult. A volte dipende dalla trama e dai temi trattati come fu per Il laureato, altre dagli attori come in L’attimo fuggente (uno dei ruoli più amati di Robin Williams) o ne Il buio oltre la siepe, film che valse l’Oscar a Gregory Peck. Può dipendere dal regista che in quel film in particolare riesce a esprimere al meglio la propria poetica (come fu per Tim Burton in Edward mani di forbice), o dall’essere l’opera manifesto di un genere, come sono Un dollaro d’onore e I magnifici Sette per il western. In altri casi è semplicemente una questione di strategia pubblicitaria, di abilità nel creare attesa e attenzione verso un dato film, come fece Spielberg per Jurassic Park.

Ci sono anche film che diventano il manifesto di una generazione o di una particolare età (quasi sempre l’adolescenza, magica e piena di ricordi, così evocativa da rappresentare), dovendo spesso il proprio successo alla musica e alle canzoni più che alla trama (come Grease e Il tempo delle mele).


È il caso di Dirty dancing, prodotto nel 1987 ma ambientato negli anni ’60. La pellicola racconta la storia della giovane Jennifer Grey che, in vacanza con la famiglia, si innamora del giovane e aitante maestro di ballo Patrick Swayze. E questo è tutto, perché molto altro da dire sulla storia non c’è, se non il fatto che il premuroso padre di lei (Jerry Orbach, conosciuto soprattutto per la sua lunghissima militanza in Law & Order – I due volti della giustizia) ovviamente detesta il giovane e non approva la loro relazione e che il bel maestro di ballo è vittima dei pregiudizi che all’epoca (e in parte ancora oggi) la gente nutriva nei confronti degli artisti, visti come irresponsabili, libertini e poco di buono (quando alcuni clienti dell’hotel vengono derubati, Orbach e gli altri benpensanti accusano subito Swayze, mentre in realtà i responsabili sono una coppia di rispettabili anziani).

Eppure il film è un cult e ad ogni passaggio televisivo ottiene sempre un discreto successo. Senza grandi attori (Patrick Swayze ai tempi era praticamente uno sconosciuto). Senza una gran trama. Senza artifici tecnici e stilistici. Ma a volte basta una canzone per dare al film un’aura di magia.
 

lunedì 3 novembre 2014

Quando un volto diventa un'icona


Halloween è passato da pochi giorni e, come ogni anno, tra i costumi più in voga ci sono quelli dei membri della famiglia Addams. Le ragazze optano per la sensuale Morticia, mentre i ragazzi più in forma scelgono Gomez (agli altri non resta che accontentarsi del costume da zio Fester). Gli Addams sono un ever green essendo ormai un’icona del nostro mondo.

Nati negli anni ’30 dalla penna di Charles Addams, divennero popolarissimi in tutto il mondo solo negli anni ’60, grazie all’omonimo telefilm.

La languida e spettrale Morticia è stata portata al cinema da Anjelica Huston ed è tornata in tv nel 1998 con La nuova famiglia Addams, impersonata da Ellie Harvie.

Il marito Gomez, elegante e signorile, perennemente in gessato e con sigaro in bocca, imperturbabile ed entusiasta, ha avuto il volto di Raul Julia e di Glenn Taranto.

Lo zio Fester, gioiosamente irresponsabile, sempre allegro e di buon umore, impegnato a fabbricare esplosivi o a giocare con il cannone, al cinema, interpretato da Christopher Lloyd, è stato il vero protagonista delle due pellicole sulla stramba famiglia. Lloyd, magnifico in altre parti come il celebre Doc di Ritorno al futuro, è un zio Fester troppo magro e smunto, privo di quella vivacità che il personaggio richiede. Ha fatto un lavoro già migliore Micheal Roberds nel telefilm del 1998.

Eppure i volti che associamo immediatamente a Morticia, Gomez e Fester non sono quelli nominati finora. Sono i visi di Carolyn Jones, John Astin e Jackie Coogan, nomi sconosciuti ai più, ma facce note a tutti. Sono gli interpreti del telefilm degli anni ’60 La famiglia Addams. È con loro che questi personaggi sono diventati iconici ed è ai loro volti che gli associamo, essendo divenuti grazie agli Addams icone loro stessi-


 

giovedì 30 ottobre 2014

Villa, dolce villa



Quando pensiamo a Los Angeles ci scorrono davanti agli occhi le immagini di Hollywood, le palme di Beverly Hills, le luminose spiagge di Malibù. Ma Los Angeles è soprattutto la città del cinema e dei divi. E di magnifiche ville, contornate da piscine olimpioniche e colonne greche.

Il tenente Colombo, con le sue indagini concentrate nella Los Angeles bene, tra personaggi famosi e miliardari, ci ha dato negli anni un ampio campionario di magnifiche ville. Solitamente in queste magioni – chiamarle case è davvero riduttivo – abita una sola persona, al massimo due. Certo, c’è la servitù, dal maggiordomo, alla cameriera, passando per l’autista e il giardiniere. Ma la servitù non vive in quelle dimore, ci lavora e basta, vivendo al massimo nella piccola dependance adiacente.

Ville enormi, di non so neanch’io quante stanze, riservate ad un solo essere umano. Colombo ce ne mostra il lato solare, ricco, affascinante. Chi non invidierebbe i ricchi padroni di casa? E dopotutto parte del gioco in Colombo è proprio quello di riservare la parte dell’assassino a personaggi odiosamente ricchi, belli e potenti. Lo spettatore ha una sensazione di rivalsa nel vedere il povero tenente (che in quanto a mezzi economici tanto gli assomiglia), circuire e infine incastrare i colpevoli. È una sorta di giustizia sociale quella fatta dalla serie. Se nella realtà i ricchi e i potenti riescono sempre a “svangarla”, quantomeno nella finizione televisiva non hanno scampo.

Ma c’è anche un altro lato, oscuro, spaventoso, inquietante. Colombo va quasi sempre di giorno a tormentare il colpevole di turno nella sua enorme abitazione. E vediamo una casa piena di luce, con mobili e oggetti molto costosi. Ma provate ad immaginare quelle stesse ville di sera tardi. Silenziose, buie (in America non si usano i lampadari. Prediligono le lampade che, saranno pure più chic, ma fanno molta meno luce), quasi disabitate. Uno scenario da film dell’orrore. Non posso fare a meno di immaginarmi come dev’essere angosciante e inquietante vivere in case così grandi e così vuote.

E non posso non pensare che forse le vite delle star che spesso invidiamo, sono molto meno affascinanti di quanto si pensi, esattamente come le loro ville.

martedì 28 ottobre 2014

È tutta questione di cuore



Mi trovo spessissimo in totale disaccordo con la critica. Ogni opinione è degna di rispetto, ma sono convinto che i critici – e molti spettatori che si atteggiano a critici – giudichino un’opera solo in base a questioni tecniche, ignorando gli elementi più importanti, ovvero i sentimenti che il film è in grado di suscitare e i valori e le idee che cerca di promuovere. Il caso più evidente è Instinct – Istinto primordiale.

La pellicola racconta la storia dell’antropologo Anthony Hopkins che, dopo essersi isolato per due anni in cui ha vissuto con i gorilla nella giungla africana, uccide due uomini. Rimpatriato negli Usa e ricoverato in un manicomio, si aprirà solo con lo psicologo Cuba Gooding Jr. che riuscirà a trasportare nel suo mondo e a cui racconterà cosa è successo realmente.

Leggendo le varie recensioni on line, si nota come in troppi non abbiano capito niente del film. Molti hanno interpretato la pellicola come una critica alla civiltà e un elogio della barbarie e dell’istinto primordiale (complice il pessimo titolo italiano), come l’espressione della voglia di tornare a una società più animalesca, vedendo la scelta di Hopkins di vivere con i gorilla come un diventare animale egli stesso, perdendo la propria natura umana (e questo già fa capire come abbiano seguito male il film, dato che lo stesso Hopkins racconta che non sono diventato un animale. È successo qualcosa di più incredibile. I gorilla hanno accettato un uomo nel loro gruppo).

In realtà il film è un manifesto della libertà, una critica all’esasperante tentativo umano di controllare ogni cosa. Nel corso del suo percorso evolutivo, l’uomo ad un certo punto non ha più accettato di far semplicemente parte di questo mondo e ha voluto diventarne padrone, esercitando un controllo che in realtà non è in suo potere.

Chiamatele baggianate new age, chiamatelo buonismo, ma se tutti comprendessimo di essere ospiti su questo pianeta, forse le cose andrebbero un po’ meglio. Ma questa probabilmente è una verità troppo difficile da accettare ed è per questo che la maggior parte si rifiuta direttamente di capirla.